Tutte le novità del Jobs Act: successo per il seminario di Confcommercio Mantova

18/02/2015

Tutte le novità del Jobs Act: successo per il seminario di Confcommercio Mantova

Grande partecipazione all’incontro “Come cambia il lavoro dopo il Jobs Act”, promosso martedì 17 febbraio da Confcommercio Mantova presso il Centro di Formazione di Porto Mantovano: in platea imprenditori, consulenti ed esperti di amministrazione del personale, interessati ad approfondire tutte le novità in materia di lavoro introdotte dalla riforma del governo Renzi e dalla legge di stabilità.
Pierantonio Poy, Direttore della Direzione Sindacale di Confcommercio Milano ha illustrato le deleghe del Jobs Act; Roberta Rossetti, vice Responsabile dell’Area Relazioni Sindacali della stessa associazione ha approfondito il contratto a tutele crescenti, mentre Alessandra Setti, funzionaria della stessa area, ha presentato le novità della legge di stabilità.
Ad aprire i lavori il Presidente di Confcommercio Mantova Ercole Montanari e il Direttore Nicola Dal Dosso, mentre l’introduzione dei relatori è stata affidata alla responsabile dell’Area Relazioni Sindacali di Confcommercio Mantova Federica Contesini.

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L’INTERVENTO DEL DIRETTORE NICOLA DAL DOSSO

Abbiamo voluto organizzare questo momento di approfondimento perché sono molti i dubbi, ma anche le attese, che le nostre imprese nutrono nei confronti di questa riforma di importanza cruciale, destinata a incidere profondamente sulle PMI.

Si osserva che, come recentemente evidenziato dall’Ufficio Studi di Confcommercio, oltre il 42% degli occupati opera nei servizi, mentre quelli dell’industria non arrivano al 23%. Anche il valore aggiunto prodotto rappresenta oltre il 40% del totale dell’economia, mentre quello dell’industria si ferma al 23%.

Anche l’analisi delle dinamiche occupazionali ci dice che nel terziario non solo l’input di lavoro cresce più rapidamente rispetto all’industria durante le fasi espansive, ma non decresce nemmeno durante le fasi peggiori del declino economico.

A questo ruolo predominante del terziario sul piano occupazionale, fa da contraltare un imponente aumento del costo del lavoro: per il nostro settore, tra il 2007 e il 2013 esso è aumentato di oltre il 16%, a fronte di una perdita di produttività del 4,5%.
Una combinazione che è tra i principali fattori della perdita di competitività del sistema Italia rispetto ai Paesi dell’Eurozona.

Val la pena ricordare che dalla legge Fornero del luglio 2012 abbiamo assistito ad altri due interventi normativi, quelli firmati da Giovannini e da Poletti, per arrivare oggi al Jobs Act.

Quattro riforme del lavoro, dopo la legge Biagi, che purtroppo non cambiano i presupposti di base: le MPMI assumono nuovi dipendenti solo dopo aver acquisito nuovo lavoro e non viceversa.
Quindi, fintanto che lo scenario economico rimarrà depresso improbo sarà un miglioramento dei livelli occupazionali, soprattutto se non si sarà in grado di garantire maggiore flessibilità.
Sul Jobs Act, pur riservandoci una valutazione complessiva quando avremo modo di studiare tutti i decreti attuativi, confidiamo che, nonostante lo scenario contingente, sappia dare un importante impulso alle dinamiche del lavoro.

Ad oggi, dunque, il nostro giudizio sulla riforma del lavoro non può che essere sospeso, dal momento che mancano ancora capitoli importanti tra quelli assegnati alla legge delega.

Apprezziamo l’impegno dichiarato dall’Esecutivo a garantire una maggiore flessibilità nei rapporti di lavoro, accanto alla semplificazione della burocrazia e alla facilitazione per le nuove assunzioni.

Proprio in merito a quest’ultimo punto, il giudizio sugli sgravi contributivi è positivo, anche se la questione va affrontata a tutto tondo e con un approccio strutturale, mirato a ridurre quella forbice tra costo del lavoro e retribuzioni che ormai ha raggiunto dimensioni insostenibili. Sicuramente gli incentivi alle assunzioni potranno portare risultati positivi nel breve periodo, sarebbe però ben più incisivo affiancare a questi una riduzione strutturale dell’IRAP, con un correttivo che garantisca benefici per tutte le imprese.

Per quanto riguarda la flessibilità e l’organizzazione del lavoro, vorrei ribadire che quello che le MPMI chiedono non é di avere mano libera nella gestione delle risorse umane, ma soltanto maggiori certezze nei rapporti di lavoro.

E’ inoltre indispensabile, accanto al nuovo istituto del “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, preservare lo spirito di quelle tipologie contrattuali flessibili necessarie alle categorie imprenditoriali le cui esigenze non sono riconducibili a modelli gestionali “standard”: basti pensare al settore alberghiero, turistico o della ristorazione.

Va inoltre detto che il contratto indeterminato a tutele crescenti, che potrebbe risultare economicamente più vantaggioso rispetto a quelli di cocopro e lavoro a termine, porterà probabilmente alla stabilizzazione di lavoratori già occupati. Probabilmente, non riguardando gli attuali inoccupati, non si creeranno, nella sostanza, nuovi posti di lavoro.
Fra l’altro, il contratto a tutele crescenti è quasi più conveniente anche dell’apprendistato, e questo può determinare il definitivo accantonamento di quello che per lungo tempo è stato il vero (se non l’unico) strumento in mano ai giovani per entrare nel mondo del lavoro.
Non è scontato nè veritiero che la maggior flessibilità si accompagna a minori tutele. Ciò che spesso si dimentica è che le MPMI hanno un legame diretto con il mercato finale e risentono immediatamente delle variazioni nella quantità e nelle modalità dei consumi.
Non possono dunque proporsi con un’offerta rigida, anche sul piano del personale, ma con un’organizzazione su misura, quasi sartoriale, che calza alle esigenze del consumatore e questo deve riflettersi in un’adeguata flessibilità del lavoro.

Occorre quindi che ogni previsione in materia di flessibilità e di organizzazione del lavoro consenta alle imprese di adattarsi ai cambiamenti organizzativi e di mercato, per potersi mantenere competitive.

Sempre con questa prospettiva vanno inquadrati i correttivi ai licenziamenti e all’art. 18, che dovrebbero garantire una maggiore certezza del diritto e delle regole a tutti gli operatori, nonché una riduzione dei tempi delle controversie giudiziarie e una semplificazione delle procedure. Stando attenti, però, al rischio che l’indennizzo economico per il licenziamento illegittimo assuma dimensioni tali da risultare ancora una volta sproporzionato rispetto al panorama internazionale.

Altro punto critico è l’introduzione del salario orario minimo.

Si tratta di un istituto presente nei paesi caratterizzati dall’assenza o dall’inadeguatezza della contrattazione collettiva nazionale: cosa che non avviene in Italia, dove invece la determinazione della retribuzione del lavoro subordinato è da sempre affidata alla contrattazione collettiva nazionale di categoria.

Il compenso orario minimo, anche se limitato a settori non coperti dalla contrattazione collettiva, porterebbe con sé un elevato rischio di alterazione, in via indiretta, degli equilibri economici individuati dai contratti collettivi nazionali. Se la quota fosse più bassa dei contratti collettivi si correrebbe il rischio di disapplicazione degli stessi e se fosse più alta si determinerebbe uno squilibrio nella rinegoziazione degli aumenti. Infine, un possibile adeguamento periodico per legge riproporrebbe, seppure in misura ridotta, il vituperato meccanismo della scala mobile.

Poi c’è la nota dolente della burocrazia: c’è la necessità di procedure più semplici per la gestione del rapporto di lavoro, di procedure arbitrali che disincentivino il contenzioso giudiziario, di una razionalizzazione degli organi ispettivi, di uniformare il contratto di apprendistato.

La semplificazione va conseguita come obiettivo prioritario per rimuovere uno dei più grandi ostacoli allo sviluppo delle imprese e dell’occupazione e recuperare il gap oggi drammatico rispetto agli standard dei principali player occidentali.

Per favorire un mercato del lavoro maggiormente efficiente, nonché inclusivo, occorre intervenire sulle più gravi criticità esistenti nel nostro Paese rispetto ai migliori standard OCSE: la difficoltà dei giovani a entrare nel mercato del lavoro e la difficoltà di ricollocarsi per chi perde il lavoro.

Occorre dunque ridisegnare l’intermediazione e il coordinamento tra politiche attive e passive, facendo attenzione a non incrementare ulteriormente il costo del lavoro.

Misure utili sono quelle di liberalizzare la rete di servizi per il lavoro e realizzare un maggior coordinamento fra le politiche attive e il sostegno al reddito (eventualmente anche sanzionando il disoccupato che rifiuta proposte di lavoro), oltre a rendere più efficienti i servizi per il lavoro attraverso un sistema premiale per gli operatori che collocano disoccupati.

Per concludere una nota sugli ammortizzatori sociali: è indispensabile semplificare la cassa integrazione e il fondo di solidarietà residuale specifico per il terziario per le aziende sopra i 15 dipendenti. Non è immaginabile, infatti, che questo ammortizzatore sociale sia pensato per il commercio sul modello industriale della casa integrazione ordinaria, né sui suoi costi.

Accanto alla cassa integrazione deve trovare poi collocazione lo strumento più universale per la tutela della disoccupazione, con durate congrue, senza scivolare verso un’assistenza prolungata, che sarebbe disincentivante per una piena ricollocazione.

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